Alessia Amenta
Leggi i suoi articoliAlessia Amenta, curatore del Reparto Antichità Egizie e del Vicino Oriente dei Musei del papa, ci guida in un percorso attraverso le Sale del Museo Gregoriano Egizio e le sue opere maggiormente significative.
L’allestimento del museo di oggi è stato inaugurato nel 1989 per opera dell’allora curatore, l’egittologo francese Jean-Claude Grenier, in occasione del 150mo anniversario dalla sua fondazione. Le prime sei sale ospitano la collezione egizia e sono state organizzate per aree tematiche, mentre le ultime tre, dedicate alla collezione del Vicino Oriente Antico, sono state più recentemente riorganizzate, nel 2000, dall’allora curatore, l’orientalista Lorenzo Nigro.
La nostra passeggiata insieme nel museo inizia schiudendo un bel cancello in ferro in stile egittizzante, che ci richiama a quel sapore e gusto del primo allestimento ottocentesco, che avvolgeva i reperti in ambienti dal sapore esotico. Sotto la direzione di Giuseppe Fabris tutto il nuovo Museo Gregoriano Egizio venne decorato «in istile egiziano convenientissimo»: soffitto blu stellato, pareti dipinte con sfondi paesistici tra finte architetture in finto alabastro, modanatura a gola egizia con iscrizione geroglifica nelle prime due sale con il disco solare tra due urei sul fronte, due alte colonne mistilinee con capitello papiriforme aperto che segnano un passaggio monumentale tra la prima e la seconda sala. Anche gli arredi interni, come le vetrine, le sedie e le cornici dei papiri, vennero realizzati in stile egizio. Oggi solo le prime quattro sale del museo di oggi conservano traccia di questa decorazione.
Attraversando tutte le sale, proviamo a ritagliare i pezzi più significativi della collezione. Nella prima, dedicata alle iscrizioni, si conserva il documento storico più interessante della collezione, la statua acefala di naoforo del sacerdote Udjahorresne in basalto, nota agli studiosi come «Il naoforo del Vaticano». Il personaggio, che porta i titoli di archiatra, tesoriere del re del Basso Egitto e comandante della flotta del re, visse tra la fine della XXVI dinastia (664-525 a.C.) e l’inizio della XXVII (525-404 a.C.), quando l’Egitto divenne una satrapia persiana. Egli godette dei favori della corte persiana e, nella lunga iscrizione che ricopre la sua veste, racconta dei re achemenidi come rispettosi della tradizione egizia, dando dell’occupazione persiana un quadro opposto a quello trasmessoci dalle fonti greche, fortemente influenzate dalla propaganda antipersiana.
All’interno di una nicchia sul lato opposto della sala, una stele centinata in arenaria dipinta racconta del regno di Hatshepsut, la regina salita al potere durante la gloriosa XVIII dinastia, nella prima metà del XV secolo. Nota al grande pubblico per il suo splendido tempio funerario scavato nella montagna tebana a Deir el-Bahari, Hatshepsut – il cui nome significa «la prima delle nobili» – era la moglie e sorella del faraone Thutmosi II. Alla morte del marito, in una prima fase regna insieme al giovanissimo nipote-figliastro Thutmosi III, figlio di Thutmosi II e di una principessa secondaria; dopo qualche anno la regina rivendicò i titoli e gli attributi regali, proclamandosi faraone e governando autonomamente per ventidue anni. Subirà per questo, alla sua morte, una damnatio memoriae inesorabile e il suo nome verrà scalpellato da ogni monumento. Una storia nota agli appassionati e che questa stele testimonia per la fase di «co-reggenza»: la scena nel registro superiore rappresenta infatti la regina, con la corona azzurra, nell’atto di offrire al dio Amon-Ra due vasi globulari, accompagnata dal giovane Thutmosi III, che indossa la corona bianca dell’Alto Egitto. L’offerta alla divinità da parte del sovrano garantisce un regno prospero e legittimità al trono per milioni di anni.
Attraverso due alte colonne papiriformi, che introducono nella seconda sala, si entra nel mondo funerario, raccontato da quegli oggetti che il defunto avrebbe portato con sé nella sua «Casa dell’eternità», la tomba.
Il sarcofago rappresenta l’elemento principale del corredo funebre e conserva nei secoli un’importante valenza simbolica, oltre a rappresentare di fatto il contenitore del defunto imbalsamato. La collezione vaticana conta un'importante raccolta di sarcofagi lignei policromi, che sono esposti solo in parte.
Il più spettacolare è quello della Signora della Casa Djedmut, vissuta all’inizio della XXII dinastia (945-909 a.C.), sacerdotessa cantatrice del tempio di Amon-Ra a Karnak, sulla riva orientale tebana. È questo soltanto il sarcofago esterno, ma la sepoltura originaria conteneva al suo interno un altro sarcofago, che racchiudeva la mummia, coperta a sua volta da una tavola di legno finemente decorata. La decorazione pittorica è un vero capolavoro artistico, con una attenzione al dettaglio straordinaria e una particolare eleganza nel tratto. Il sarcofago di Djedmut rientra nella tipologia dei cosiddetti «sarcofagi gialli», caratterizzati da un fondo giallo nella decorazione, simbolo di eterna rigenerazione, e una patina di vernice traslucida di origine vegetale sulla superficie, trasposizione della luce del dio sole Ra che avvolge e traspone in una dimensione ultraterrena la sepoltura.
Sempre in questa sala si conserva un altro documento, che permette di studiare la società dell’Egitto romano, il bel ritratto di giovane uomo su una tavola lignea, dipinta ad encausto. Lo stile della raffigurazione, i tratti del viso e il caratteristico taglio dei capelli fanno datare il dipinto al primo quarto del III secolo d. C. Rientra nella tipologia dei cosiddetti «Ritratti del Fayyum», così chiamati perché i primi esemplari furono rinvenuti in grande quantità nell’area del Fayyum, ma molti esemplari sono stati ritrovati anche in numerose altre necropoli del Medio e Alto Egitto. Posto all’altezza del viso e legato dalle bende della mummia, questo ritratto rappresenta una trasposizione in età romana del volto idealizzato delle maschere funerarie di età faraonica.
Anche il telo linteo dipinto della «Dama del Vaticano» testimonia dell’Egitto romano. L’abito, i gioielli e l’acconciatura, che si ispira alla moda delle donne della casa imperiale severiana, permettono una datazione al III sec. d.C. e raccontano di una donna di alto rango. Uno dei quadretti figurativi, che decorano il lungo telo a dimensione umana, ritrae una scena di istruzione filosofica con un maestro e una giovane allieva, probabilmente la defunta stessa; anche nella tradizione faraonica si ritrova il defunto che con orgoglio si fa rappresentare con una paletta da scriba, simbolo di un livello di istruzione elevato.
La terza sala del museo ha invece una valenza storiografica, poiché riproduce l’interpretazione da parte dell’egittologo Jean-Claude Grenier di un gruppo di statue rinvenute a Tivoli, a partire dal XVI secolo, nell’area di Villa Adriana, la celebre residenza fatta costruire dall’imperatore Adriano (117-138 d.C.). Le statue, di epoca romana e di stile egittizzante, adornavano in origine gli ambienti di ispirazione egizia della Villa e secondo Grenier sarebbero state tutte disposte nell’area del cosiddetto Canopo, intorno ad una esedra circolare e un lungo canale pieno d’acqua, con allusione al corso del Nilo e al suo delta.
Al centro della vasca lunga Grenier ricompone una erma bifronte, da un lato Osiri e dall’altro il dio toro Api, su una base in forma di fiore di loto. Nel Serapeo del Canopo Adriano avrebbe attuato un coraggioso tentativo di riforma religiosa: il suo favorito Antinoo, morto affogato nel Nilo, sarebbe stato divinizzato attraverso l’assimilazione con il toro Api divenuto Osiri (il dio morto e risorto), identificato dai Tolomei con Serapis/Serapide, la divinità della salvezza alessandrina. Tutto intorno all’erma sono state disposte una serie di statue di sacerdoti, nell’atto di svolgere il Rituale del mattino templare, con cui si risvegliava ogni mattino la divinità, simbolo di rigenerazione di tutto il cosmo. Il dio emergerebbe dalle acque primordiali su un fiore di loto, ricollegandosi ad una delle cosmogonie egizie.
Accanto a questa ricostruzione si erge l’imponente statua di Osiri-Antinoo, in marmo pario, una delle icone della collezione vaticana. Per volere di Adriano, Antinoo fu divinizzato e il suo culto si diffuse rapidamente in tutte le province dell’Impero, soprattutto tra il 133 e il 138 d.C., anno della morte dell’imperatore. Circa un centinaio di immagini del giovane sono oggi note agli archeologi, che le hanno classificate in differenti tipologie. Il modello iconografico del nostro esemplare è appunto quello dell’Osiri-Antinoo, con il quale si voleva esprimere la natura regale e divina del personaggio. La statua fu rinvenuta nel 1739 nell’area delle «Cento Camerelle» nella Villa Adriana di Tivoli dove, secondo recenti ipotesi, doveva sorgere un luogo a lui dedicato. Donata a Benedetto XIV, nel 1742 fu collocata nel Museo Capitolino e successivamente su volontà di Gregorio XVI fu trasferita nel 1838 nel nuovo Museo Egizio.
IL MUSEO INFINITO
Un viaggio dentro i Musei Vaticani accompagnati da guide d’eccezione: i curatori responsabili delle sue collezioni
A cura di Arianna Antoniutti
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